Quale testimonianza?

Quando papa Giovanni XXIII nell’aprile del 1963, annunciò al mondo la sua enciclica “Pacem in terris”, i motivi di emozione non furono pochi. Non possiamo dimenticare che si era impegnato come mediatore tra la Russia e gli Stati Uniti d’America in occasione della crisi di Cuba; inoltre, aveva aperto da pochi mesi il Concilio, che era ancora alla ricerca di un indirizzo definitivo. E’ in questo contesto internazionale che apparvero gli obiettivi dell’enciclica. Non possiamo non ricordare:

  • la richiesta ai cristiani di essere attenti ai nuovi fenomeni sociali, i cosiddetti “segni dei tempi”: la promozione delle classi lavoratrici, l’ingresso della donna nella vita pubblica, l’aumento dei paesi e dei popoli indipendenti;
  • il superamento delle discriminazioni razziali;
  • l’invito a distinguere tra le visioni sbagliate del mondo e i movimenti sociali viventi che pure a queste visioni si richiamavano;
  • l’appello alla pace e al disarmo dove il Papa indicava con forza che non è possibile riconoscere nella guerra uno strumento di giustizia;

Rappresentava certamente una svolta nella mentalità spesso annebbiata dei Cristiani; spingeva a costruire un ordine nuovo tra persone e comunità politiche, da vivere nella verità, nella giustizia, nell’amore e nella libertà.

Papa Giovanni fu profeta anche nel leggere i segni dei tempi, quando invocava a riflettere sulla crescente interdipendenza tra le economie e dell’incapacità dei governi di assicurare il “bene comune” dei cittadini del mondo. Faceva anche un esplicito appello perché i “potenti della politica” sapessero farsi carico di costituire un’autorità all’altezza della nuova condizione del mondo, non imposta con la forza dalle comunità politiche più potenti e capace di operare in modo efficiente sul piano mondiale.

Quanto è attuale l’Enciclica possiamo vederlo ad esempio su come si è evoluta la guerra all’Iraq, sul ruolo contrapposto tra Stati Uniti ed Europa rispetto al dramma che il popolo iracheno stava vivendo, in quanto sottoposto ad un tiranno che non si faceva scrupolo di usare la forza per sottomettere idee ed uomini.

Nel corso di questi ultimi mesi è stato anche detto che con la guerra in Iraq si apriva anche uno scontro tra le due più importanti realtà culturali e religiose al mondo: la cristiana e l’islamica.

Non dimentichiamo che la cultura occidentale è il frutto di un intreccio più o meno importante di tradizioni religiose e di valori assai diversi.

Come non evincere che l’aspetto centrale sia quello di trovare un “comune denominatore etico”, che venga fatto emergere, riconoscendo ciò che unisce le diverse tradizioni culturali, necessari per instaurare una convivenza orientata alla mutua collaborazione, che non nasce dalla necessaria ricerca del bene, ma affonda le radici nell’etica di quei principi, al di là dei quali ogni relazione interpersonale si ritrova consegnata al fallimento.

Ma qual è il ruolo dei cristiani in questo nuovo contesto internazionale?

Una delle incapacità principali dei cristiani è quella di non sapere considerare la Bibbia e il Vangelo come elementi fondanti in chiave sociale, economica e politica.

Un gesuita inglese dice che noi Cristiani o presunti tali, sappiamo leggere il Vangelo come se non avessimo soldi e, al contempo, usiamo i soldi come se non conoscessimo nulla del Vangelo.

Padre Zanotelli ci suggerisce di prendere il Vangelo per tradurlo per quello che è davvero, a costo di diventare sovversivo dei valori della società entro la quale viviamo altrimenti si fa solo del moralismo.

Abbiamo ancora tanta strada da fare; l’Europa che ha adesso una nuova moneta e rappresenta certamente un gigante economico, fino a quando continuerà ad essere una larva in politica? E’ necessario che l’Europa sappia guardare ad Est per un progressivo allargamento con la stessa attenzione e sensibilità con la quale sta cercando di individuare gli strumenti fondanti di una politica comune.

Forse non sarà facile per noi, incidere sulla macro-politica, tuttavia nel piccolo della nostra comunità, non ci si deve stancare di incontrarsi per parlare, riflettere e provare ad intraprendere una nuova strada. Come non riconoscere che le diversità, che l’incontro con culture apparentemente così lontane, portano ricchezza. Non possiamo relegare l’immigrato al margine senza nessun diritto, considerarlo quando è funzionale al capitale o a noi come forza-lavoro e poi negargli il suo ruolo nella nostra società. Molti nostri connazionali hanno vissuto l’esperienza di un paese straniero che non sempre lo ha accolto, ma che ha certamente saputo dargli una possibilità.

Il Papa ci ha esortato ad assumere fino in fondo il compito di evangelizzare il lavoro e la vita sociale, facendo della Dottrina Sociale della Chiesa la nostra strada maestra, per rispondere cogliere e manifestare la centralità della persona umana. Giovanni Paolo II ci ha anche sollecitato ad essere determinati nell’impegno di difendere l’uomo, la sua dignità, i suoi diritti e la sua dimensione trascendente, spronandoci ad avere una grande attenzione per la famiglia, verso la quale devono essere pensate politiche sociali a sostegno della formazione e del lavoro, necessarie a conciliare lavoro e tempo per una miglior cura della famiglia ed infine di investire di più nel dialogo generazionale, formando giovani capaci di dare sapere ed illuminare la nostra società come sale della terra e luce del mondo.

Ecco, quindi che il ruolo di noi cristiani deve essere quello di saper riconoscere nella realtà sociale e nel lavoro, le speranze e le angosce del nostro tempo. Dobbiamo essere di grado di testimoniare con la nostra vita, i valori del “Regno di Dio” anche quando ciò comporta andare contro corrente.